21 gennaio 2020 – Commemorazione del 75° anniversario della strage di 6 partigiani a Cima di Porlezza. Gli interventi di Paola Rosiello e degli studenti dell’Ist. “Vanoni” di Menaggio


L’intervento di Paola Rosiello – Associazione cittadini insieme di Porlezza, Consigliere Centro studi “Schiavi di Hitler”

L’associazione Cittadini Insieme, che da tanti anni promuove questa giornata di ricordo, ringrazia tutti i presenti, il sindaco di Porlezza, le associazioni dei finanzieri e carabinieri in pensione, gli alpini, il don, tutte le associazioni che hanno aderito, le dirigenti scolastiche del territorio, la Proloco di Porlezza, ma soprattutto ringrazia i docenti e voi, ragazzi, che rendete veramente unica questa commemorazione. Essere presenti oggi, così numerosi, è un atto di testimonianza che scalda il cuore e ci riempie di speranza.

Proprio qui, dove adesso sorge questa lapide, 75 anni fa sei giovani ragazzi attendevano la scarica finale davanti a un plotone di esecuzione. Non si aspettavano che andasse a finire così e non avevano scelto deliberatamente di morire.

Ma erano partigiani: era rischioso e lo sapevano; le condizioni in montagna durissime e le sopportavano, perché guardavano al futuro con la speranza negli occhi: vincere contro nazisti e fascisti per ridare all’Italia quella libertà e quella pace di cui altri, più fortunati di loro, avrebbero goduto negli anni a venire, noi e voi compresi. Si sono presi cura non dei loro padri e madri, fratelli e sorelle, figli e amici, si sono presi cura degli italiani e prendendosi cura degli italiani si sono presi cura del mondo intero.

Questa è la vera bellezza che salverà il mondo, questo il senso più profondo del loro sacrificio, se vogliamo trarne un insegnamento: prendersi cura del mondo intero. Degli animali e delle piante che bruciano in Australia da quattro mesi, dell’aria che diventa sempre più irrespirabile, dei fiumi che scorrono devastando paesaggi e vite umane, dei mari che si svuotano dei pesci, dell’acqua dolce che si ridurrà drasticamente quando spariranno i ghiacciai, dei nostri fratelli che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla persecuzione, dalla schiavitù.

Prendersi cura anche di quelli che, nonostante gli orrori dei campi di concentramento, pensano ancora oggi che l’umanità si divida in razze piuttosto che in ricchi privilegiati e quelli che vivono di rinunce e di stenti, in bambini che possono studiare e bambini obbligati a lavorare, in ipertecnologici e quelli che devono percorrere molti chilometri al giorno per andare a prendere l’acqua potabile dai pozzi.

Per quale libertà bisogna oggi lottare? Consumiamo il mondo a una velocità pazzesca; il clima ne è sconvolto e migliaia di giovani ce lo gridano in tutte le piazze del pianeta. Consumare il mondo in questo modo significa non avere a cuore il futuro di questa e delle prossime generazioni.

La libertà, allora, è cambiare rotta, dirlo apertamente e farlo quotidianamente con piccoli accorgimenti virtuosi per ridurre gli sprechi ed essere felici lo stesso, senza preoccuparci dei bulli e degli odiatori seriali dei social che ci deridono per le nostre idee alternative. Il consumo del mondo genera guerre che in futuro saranno ancora più incontrollabili.


Cambiare il presente è già futuro. Ma è sempre un atto di coraggio; il nemico è più subdolo, ci induce a vivere solo per il presente, nel nostro orticello, convinti che la nostra felicità coincida con l’ultimo modello di smartphone.

Se avete bisogno di coraggio ricordate il coraggio di “Franca”: era il nome di battaglia di Livia Bianchi, l’unica donna del gruppo, l’unica a cui proprio qui, dinanzi al plotone che attende l’ordine definitivo, viene offerta la possibilità di salvarsi, ma lei no, rifiuta, vuole morire con i suoi compagni di lotta e per le sue idee di libertà.

Aveva una madre, aveva marito, aveva un bimbo.

L’intervento degli studenti delle classi quinte dell’Istituto Alberghiero Vanoni di Porlezza

L’insegnamento di Liliana Segre (Milano, 20/01/2020)

La prima libertà è la libertà di pensiero. Il mio corpo è stato imprigionato, ma la mia mente ha sempre continuato a volare.” Queste le parole che ieri mattina, i miei compagni ed io, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare, questa la voce di una testimone d’eccezione della nostra memoria storica. La senatrice Liliana Segre è arrivata sul palco del teatro degli Arcimboldi accompagnata da Ferruccio De Bortoli ed ha parlato in un teatro colmo di ragazzi ed ai loro insegnanti, in vista della giornata della Memoria del 27 gennaio.

La senatrice Liliana Segre, la donna sopravvissuta ai campi dell’orrore che ama definirsi la “nonna” di ciascuno di noi ci ha raccontato la sua storia: dall’esclusione dalla scuola pubblica in seconda elementare a seguito di quelle leggi razziali così criminali e profondamente ingiuste, alla tentata fuga in Svizzera con il padre Alberto, fino alla deportazione dal binario 21 della stazione Centrale di Milano, raccontando la sofferenza, la crudeltà, l’incubo e la disumanizzazione provate nel campo di sterminio di Auschwitz.

Eppure nel corso del suo intervento non si è mai fatto riferimento a parole come odio, vendetta o violenza ma anzi, è stata più volte citata la parola vita che, come ci ha ricordato Liliana Segre “è una parola importantissima, che non va dimenticata mai perché non bisogna mai perdere un minuto di questa straordinaria emozione che è la nostra vita” e poi, facendo riferimento alla recente assegnazione della scorta nei suoi confronti, ha ribadito: “Mi dispiace da matti avere novant’anni e aver così pochi anni davanti. La vita mi piace moltissimo anche se gli odiatori mi augurano la morte ogni giorno”.

Ed è proprio la parola vita, quella che ci sentiamo oggi di pronunciare in memoria dei sei martiri per la libertà che 75 anni fa, qui a Cima, hanno scelto di morire per rispetto alla vita, hanno scelto il coraggio anziché l’indifferenza, hanno scelto di dire No in un mondo che non lo permetteva.

Liliana Segre ci ha raccontato poi un aneddoto significativo; durante il ritorno in Italia, con quella che è passata alla storia come “la marcia della morte”, ricorda di aver visto il capo del campo di Ravensbrück buttare la pistola a terra: un uomo terribile e crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere. Liliana guardava l’arma, poteva avere finalmente il momento di vendicarsi, di sparare. Ma fu in quel momento che capì che non avrebbe mai potuto farlo, perché non era come lui, non era come loro. Fu quello, ci ha raccontato, il primo momento in cui ha sentito di essere libera, la donna di pace che si presenta a noi ancora oggi.

Ci sentiamo dei privilegiati, perché tra pochi anni non ci saranno più testimoni in vita della Shoah e per alcuni ancora oggi il loro racconto purtroppo crea indifferenza come se fosse l’ennesima riproposizione di una storia già archiviata, invece noi dobbiamo a Liliana Segre, a tutti i testimoni di quell’orrore e ai sei partigiani di Cima qualcosa di molto diverso e più personale: la loro storia è la nostra storia, ed è per questo necessario oggi diventare noi stessi i primi testimoni di quella memoria che è un patto tra le generazioni.

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