A ottant’anni dall’Armistizio: il tradimento, la scelta e l’espatrio in Svizzera

Di Valter Merazzi e Maura Sala per “L’antifascista”, periodico dell’ANPPIA.

Ottant’anni sono passati da quel fatidico 1943, culminato con l’8 settembre, data simbolo del tradimento dei governanti e della scelta degli italiani lasciati a se stessi.

Il re, Badoglio e le alte cariche militari fuggirono da Roma e si misero in salvo, come le loro famiglie, abbandonando il Paese tutto nelle mani degli occupanti, lasciando l’esercito, dislocato in Italia e all’estero, senza direttive chiare, ma soprattutto senza aver disposto piani per contrastare la “naturale” e prevedibile reazione tedesca.

L’annuncio l’8 Settembre dell’armistizio, da parte del generale Eisenhower da Tunisi alle ore 18.30, costrinse Badoglio al proclama via radio, la stessa sera alle 19.42. Per gli antifascisti che avevano subito la galera, il confino e l’esilio e per una parte consistente degli italiani la resa incondizionata con gli Alleati, firmata a Cassibile il 3 settembre, fu l’illusione della fine della guerra, ma anche il momento del riscatto che trasformò quel tragico evento in una lotta per la libertà e la giustizia.

I nostri governanti mostrarono la sudditanza ai tedeschi con pavidità e irresponsabilità. Fino all’ultimo il re in un incontro proprio l’8 settembre con l’ambasciatore Rahn aveva ribadito l’alleanza, come già avevano confermato Badoglio e il generale Ambrosio alcuni giorni prima.

Fu totale mancanza di piani e strategie che l’armistizio richiedeva, compreso il rientro delle nostre truppe dall’estero. Buona parte degli italiani militari e civili reagirono immediatamente con coraggio e dignità, a dimostrazione, come già il 25 Luglio dopo l’arresto di Mussolini, che non sopportavano più dittatura e guerra. Come disse il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi fu la nascita della Repubblica democratica.

Generazioni cresciute durante il regime che le aveva assoggettate a rigide regole di vita, educate sin dall’infanzia a “credere, ubbidire e combattere”, tanto che c’era sempre qualcuno che decideva per loro, seppero scegliere da che parte stare. Persone di ogni ceto sociale e cultura per la prima volta si ripresero la propria vita non tanto per un interesse personale, ma per un futuro migliore per tutti.

Fu un sanguinoso conflitto contro i repubblichini di Salò asserviti ai nazisti che durò ben ben venti mesi prima dell’agognata primavera di Liberazione. La lotta, la Resistenza armata e civile rappresentano una pagina di storia viva che offre continui spunti all’oggi, che ci lascia un patrimonio di coraggio pagato al prezzo di decine di migliaia di deceduti sulle montagne, nelle città e nei Lager.

L’otto settembre ricordiamo la scelta degli internati militari che rifiutarono la libertà dai Lager opponendosi con il loro NO alle richieste di arruolamento dei nazifascisti. Così come i 40.000 militari italiani, di cui poco si parla, che nei Balcani si unirono ai partigiani per la liberazione della Jugoslavia e della Grecia.

Ricordiamo la Resistenza civile dei tanti che sostennero la Resistenza armata e che diedero aiuto disinteressato ai perseguitati in fuga dai nazifascisti. In gran parte sono ancora sconosciuti, a causa di ricerche ancora carenti che solo localmente riaffiorano alla luce.

Pagine di storia che non fanno parte pienamente della coscienza diffusa del Paese, come quelle che riguardano le vicende delle migliaia di italiani che furono costretti a rifugiarsi oltre frontiera.

La neutrale Svizzera offrì asilo nel corso dell’intero conflitto ad oltre 293.000 rifugiati civili e militari. Neutralità e indipendenza si ressero sul ruolo di forziere delle banche, sulla convertibilità del franco e sulle esportazioni di oltre il 50% della produzione di armamenti, strumenti ottici e motori elettrici verso i paesi dell’Asse, sulla accondiscendenza di governo e banche verso i depositi nei caveau dei beni razziati dai nazisti in tutta Europa.

Dopo l’8 settembre 1943 l’assenza di barriere naturali in buona parte della frontiera meridionale determinò in modo significativo gli avvenimenti. Il canton Ticino fu la principale meta di quanti cercavano scampo dai tedeschi che in pochi giorni avevano annientato l’esercito italiano, deportato nel Reich 700.000 militari e occupato la penisola.

Il cantone venne travolto dall’ondata di fuggitivi e sopportò-supportò il peso della politica d’asilo.

La generosa accoglienza da parte della popolazione e l’atteggiamento morbido delle autorità cantonali si accompagnò alle preoccupazioni del governo federale che inviò truppe di lingua tedesca per rinforzare i controlli alla frontiera.

L’afflusso di profughi fu preceduto da fughe eccellenti: già il 5 settembre la nuora e la figlia del maresciallo Badoglio furono accolti a Losanna, così come la famiglia del ministro della Real casa Pietro Acquarone giunse a Vevey. La notte dell’8 settembre entrarono dal Gran san Bernardo Maria Josè di Savoia con i figli Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice.

Dopo l’annuncio dell’armistizio 26.000 fra militari sbandati dal disciolto esercito regio, ex prigionieri alleati fuggiti dai campi in Italia, giovani renitenti alla leva fascista e all’obbligo del lavoro, travolsero in più punti la barriera di confine nelle province del Lario, del Ceresio e del Verbano, e si consegnarono alle autorità confederali. Furono internati nei cantoni oltre il Gottardo, impiegati in buona parte in agricoltura ed ebbero un trattamento dignitoso. A questi si aggiunsero nel corso del conflitto numerosi disertori delle forze armate nazi-fasciste.

Trovarono ospitalità anche 12.000 civili di ogni età, fra i quali intere famiglie ebraiche, anche se per questi cittadini l’accoglienza non venne garantita. Già dal 16 settembre furono molti i respingimenti perché poterono entrare solo madri con figli.

Un pieno diritto d’asilo ai perseguitati razziali venne garantito solo dal luglio 1944.

Molti tra quanti vagavano nei pressi della rete di confine furono arrestati dai militi del 3° battaglione della 2a legione “Monte Rosa”della Guardia Nazionale Repubblicana, comandato dal console Marcello Mereu e dalle guardie di confine tedesche. I fuggiaschi catturati nel Comasco e nelle province di Varese e Sondrio, dopo essere stati depredati dei beni, venivano trasferiti a Como, dove vennero aperti nuovi luoghi di detenzione, perché il carcere di San Donnino, saturo di antifascisti, favoreggiatori degli espatri, contrabbandieri, borsaneristi e criminali comuni non era più in grado di contenere gli arrestati. Solo 6 ebrei sui 125 deportati dalle carceri di Como a Milano e poi ad Auschwitz sopravvissero allo sterminio.

Dai monti del basso Lario, come sui sentieri del contrabbando del Faloppiese e della val d’Intelvi, del Ceresio e del Verbano, espatriarono a centinaia affidandosi a guide locali. Nacque così un’economia dei passaggi e ci fu chi approfittò della situazione taglieggiando o abbandonando i malcapitati in fuga sulle montagne. Furono episodi minori di un fenomeno che si fondò principalmente sull’aiuto disinteressato e partecipe di molti.

L’aiuto agli espatri mobilitò in Italia gli antifascisti, le prime strutture resistenziali, parroci di confine e organizzazioni religiose, semplici cittadini che a rischio della vita sfidarono per spirito umanitario i minacciosi bandi nazifascisti.

Anche numerosi finanzieri favorirono l’esodo, parteciparono alla lotta di Liberazione pagando un costo in vite umane, quando non espatriarono essi stessi. A pieno titolo qui, come nel resto d’Italia, la rete salvifica appartiene alla storia della Resistenza civile e senz’armi che corroborò e affiancò l’attività militare e politica.

La natura del confine garantì ai partigiani del Lario e del Verbano il controllo di un territorio in grado di favorire le comunicazioni e la riorganizzazione.

Avere alle spalle il Ticino consentì alla Resistenza di disimpegnarsi in presenza di intensi rastrellamenti e di pesanti offensive come quella che, nell’ottobre 44, costrinse all’esodo dalla val d’Ossola di oltre 6.000 militari e civili, in gran parte anziani e bambini.

L’ospedale di Bellinzona fu ricovero di feriti fino agli ultimi giorni della guerra.

A seguito della presenza della centrale operativa degli alleati a Lugano, la frontiera lariana assunse un peso strategico. Ferruccio Parri e Leo Valiani la attraversarono clandestinamente nel novembre 1943 avviando rapporti stabili in rappresentanza del CLN. Le forze della Resistenza si astennero dal compiere azioni sulla linea confinaria da cui passavano i collegamenti con inglesi e americani. La liberazione, dell’enclave di Campione d’Italia, dove si insediarono agenti del governo del sud, si colloca in questo contesto, segnato dal progressivo schierarsi della Svizzera al fianco degli alleati. In particolare il monte Bisbino fu il crocevia di un intenso passaggio di agenti del Cln, alleati e svizzeri, messaggi, corrispondenza, fuggitivi e merci che durò fino alla fine della guerra.

Si rifugiarono in Svizzera anche molti antifascisti che avevano respirato la libertà dopo il 25 luglio.

I profughi politici trovarono in Ticino un’ospitalità agevolata dalla comunanza linguistica, dal sentimento antitedesco del cantone, dalla tradizione storica che aveva favorito l’esilio degli italiani nel corso del Risorgimento e durante il regime, dai movimenti politici di area socialista, liberale, popolare e radicale che si adoperarono per il loro ingresso e per le condizioni d’asilo. Particolarmente intensa fu l’opera di Guglielmo Canevascini, esponente storico del socialismo e dell’antifascismo ticinese. Un ruolo determinante lo giocò il fatto che si rifugiò in Svizzera una parte di quella che sarebbe divenuta la classe dirigente dell’Italia del dopoguerra. La confederazione ebbe un occhio di riguardo per questi profughi che si chiamavano Spinelli, Terracini, De Benedetti, Einaudi, Mondadori, Olivetti, Marchesi ed altri, non ostacolando, se non formalmente, la loro attività politica e consentendo di evitare l’internamento a coloro che dimostravano di avere i mezzi per mantenersi.

Il confine lariano fu alfine nuovamente protagonista, dopo 20 mesi di sofferenza e Resistenza, della fine della repubblica sociale, con la cattura di Mussolini e dei gerarchi a Dongo e con l’inizio di una nuova pagina della storia d’Italia.Hanno partecipato rappresentanti degli Anpi, dell’Anppia, dei sindacati Cgil, Cisl e Uil, del patronato Acli, dell’Arci provinciale, dell’Istituto di storia Contemporanea “P.A. Perretta”, del sindacato svizzero Unia.

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